Ormai i verbali della FED, redatti ogni qual volta la Banca Centrale americana si riunisce, ma resi pubblici a distanza di settimane, sono più letti dei libri di John Grisham o di James Ellroy (o anche di Andrea Camilleri). Non che Jerome Powell abbia ambizioni (almeno per il momento) da scrittore, ma senza dubbio i suoi “racconti” hanno molto seguito.
Spesso in ogni libro ci sono parole che “dominano”, venendo utilizzate molto più di altre. Lo stesso accade nei resoconti FED. E se c’è una parola, negli ultimi verbali pubblicati, che viene ripetuta ogni 2 per 3, questa non poteva che inflazione. Per ben 90 volte, infatti, è stata scritta, come mai in passato. Quasi un’ossessione. Non stupisce, quindi, la conferma del rigore monetario che da qualche mese oltre oceano si sta attuando: una scelta obbligata di fronte all’andamento dell’economia USA, che, almeno per il momento, non da segni di cedimento, come dimostra la crescita dell’indice ISM sui servizi. Il prossimo aumento dei tassi dovrebbe essere dello 0,75%: se così fosse, porterebbe la crescita dei tassi, dallo scorso marzo, al 2,25% (ad oggi siamo all’1,50%), a cui dovrebbero seguirne altri entro la fine dell’anno (i mercati stimano che per quel periodo dovremmo essere tra il 3 e il 3,35%).
Ormai i mercati sembrano aver “ingoiato la pillola”: riprova ne è che ieri sera, al momento in cui i verbali sono stati resi noti, Wall Street, unico mercato aperto, che fino a quel momento si era mossa altalenando intorno alla parità, ha accelerato, con il Nasdaq che ha chiuso a + 0,62% (ma poco prima dello stop alle contrattazioni si trovava a + 1,25%) e lo S&P 500 a + 0,36%, mentre i treasury sono sostanzialmente rimasti stabili (da 2,89% sono passati a 2,92%).
Sotto certi aspetti l’andamento del mercato tecnologico Usa può stupire. Ben sappiamo come, nei primi 6 mesi dell’anno, sia stato (se escludiamo Mosca….) il peggior listino al mondo, con una perdita intorno al 30%. Incredibili alcuni numeri: delle circa 3.500 società quotate, 220 hanno perso più del 90% del loro valore. Il 20% ha lasciato sul terreno l’80%, e circa la metà il 50%.
Ma se osserviamo l’ultimo mese, notiamo che è andato molto meglio del Dow Jones o dello stesso S&P. Chi avesse comprato l’indice tech avrebbe infatti avuto una sovraperformance rispetto al maggior indice mondiale di ben il 14%. Il motivo? Gli osservatori e gli analisti ritengono che dopo la corsa di quest’anno le Banche Centrali, con la FED in testa, invertiranno la rotta: se oggi dicono che la priorità è l’inflazione (ma è scritto anche sui più noti testi di finanza: sopra certi livelli l’inflazione “uccide” l’economia, diventando la peggiore delle tasse), domani, dopo averla “domata”, dovranno “rilanciare” l’economia, allontanando lo spettro della recessione, l’altro grande male (il più temuto rimane la “stagflazione”, il vero killer dell’economia, dato dal binomio alta inflazione e recessione). Essendo il listino tech per eccellenza composto da società (definite growth, cioè ad alto tasso di crescita) che hanno un alto livello di indebitamento, è quello che maggior soffre quando le condizioni monetarie peggiorano, mentre (come peraltro abbiamo visto nel biennio 20/21) è quello che ne trae i benefici maggiori quando le condizioni sono ottimali. Un indicatore, quindi (ricordiamo che i mercati sono sempre grandi “anticipatori” delle fasi economiche), che potrebbe far pensare che il peggio è passato: se è, peraltro, prematuro arrivare a conclusioni definitive e/o fare previsioni sui prossimi mesi, di certo si può dire, ancora una volta, che “gestire l’emotività” è, in alcune fasi di mercato, è il miglior modo per non uscirne “con le ossa rotte”.
Dopo la svolta nella seconda parte della seduta di ieri di Wall Street, questa mattina i mercati asiatici sembrano voler continuare il trend. A parte Hong Kong, al momento intorno parità (ma mancano ancora un paio di ore alla chiusura), vediamo Tokyo chiudere vicino all’1,50%, mentre Shanghai (dove le autorità hanno nuovamente avviato test di massa) si trova a + 0,40%. Positive anche la Corea (Seul + 2%) e l’India (Mumbai + 0,7%).
Ben orientati i futures, ovunque in rialzo.
Inizio di contrattazioni all’insegna del segno + per le materie prime: petrolio (WTI) che cerca di riconquistare i $ 100 (98,75). Gas naturale USA $ 5,57 (+ 0,91%).
Seppur a fatica prova a rialzare la testa anche l’oro, a $ 1.744 (+ 0,35%).
Spread sempre in area 205, per un BTP il cui rendimento si muove intorno al 3.20/3,25%.
Treasury intorno al 2.90%.
Segnali “di vita” dall’€: dopo essere sceso, nella serata di ieri, sin verso 1,17 verso $, questa mattina balza a 1,211.
Tempi sempre duri per le criptovalute: dopo il default di Three Arrows Capital, un’altra piattaforma ha deciso di ricorrere al Chapter 11. E’ stata infatti aperta la procedura fallimentare nei confronti di Voyager Digital, broker di criptovalute canadese che aveva sospeso, una settimana fa, le contrattazioni dei propri clienti, rendendo impossibili i prelievi. Il timore, come ovvio, è l’effetto contagio, con altri operatori costretti alla resa. Tiene comunque il bitcoin, a $ 20.318, + 1,31%.
Ps: e siamo a 2. Dopo l’acquisto, circa 1 mese, della Golar Tundra, la nave rigassificatrice pagata $ 370 ML, Snam ha annunciato l’acquisto della BW Singapore, altra nave Fsru (Floating storage and rigassification unit), pagandola $ 400ML. La conferma di come si stiano cercando alternative alla dipendenza dal gas russo, già scesa dal 40 al 25% . La nave, peraltro, entra in funzione solo verso la fine del 2023, il tempo di adattarla alle strutture italiane. Le due navi contribuiranno da sole al 13% del nostro fabbisogno.